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Perché Putin non avallerà un altro taglio dell’offerta di petrolio

Perché Putin non avallerà un altro taglio dell'offerta di petrolio

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Perché Putin non avallerà un altro taglio dell’offerta di petrolio

Le tensioni internazionali non aiutano certo il mercato del petrolio. Un barile di Brent si vende a 60 dollari, quando alla metà del maggio scorso si attestava a 75. Nemmeno l’estensione del taglio dell’offerta, concordato tra OPEC e Russia fino a tutto quest’anno, ha aiutato le quotazioni a risollevarsi stabilmente. Per i paesi del Golfo Persico è un grosso problema, in quanto i loro bilanci pubblici derivano essenzialmente le loro entrate dai proventi petroliferi.

La stessa Arabia Saudita, che pure detiene circa mezzo trilione di dollari di riserve valutarie accumulate grazie ai risparmi messi da parte negli anni buoni, avrebbe bisogno ancora oggi di quotazioni superiori ai livelli di mercato per tendere al pareggio di bilancio.

Non la Russia di Vladimir Putin. Per quest’anno, le basteranno prezzi medi per il greggio Ural, quello estratto in territorio domestico, pari a 49 dollari. In effetti, nei primi 7 mesi dell’anno Mosca ha registrato un avanzo di bilancio allo 0,34% del pil, circa il doppio dell’obiettivo. E’ accaduto che il governo federale ha alzato le tasse e al contempo ha tenuto a freno la spesa pubblica. E se è vero che le quotazioni del principale bene esportato risultano molto più basse dell’apice toccato nel 2014, d’altra parte il cambio tra rublo e dollaro si è di molto indebolito da allora, aumentando le entrate fiscali in valuta locale. Dunque, la politica fiscale si mostra molto solida, anche se al costo di non contribuire positivamente alla crescita del pil, ferma per quest’anno allo 0,7%, dimezzata rispetto all’obiettivo dell’1,3%.

Probabile che il Cremlino voglia concentrarsi sul varo di un pacchetto di misure di stimolo dell’economia, anche se la storia di questi decenni racconta che solitamente questi piani si rivelano inefficaci in Russia. Gli alleati sauditi chiedono un nuovo accordo per rinnovare il taglio dell’offerta, ma Putin non ne ha bisogno, perché già così chiude con un bilancio in pareggio o persino il leggero attivo. Certo, se il Brent potesse essere venduto a prezzi più alti, disporrebbe di maggiori margini di manovra fiscale, ma rischierebbe d’altro canto di perdere quote di mercato all’estero, man mano che la produzione americana dovesse continuare a salire.

Petrolio sotto 60 dollari e OPEC pessimista, il cartello ha perso la bussola

Prezioso il mercato americano

E malgrado le tensioni politiche con Washington, nei primi cinque mesi dell’anno sono salite ai massimi da 6 anni le esportazioni di petrolio russo negli USA, attestandosi a 61,75 milioni di barili, molti più dei 56 milioni dello stesso periodo del 2018. In valore, le esportazioni russe di greggio negli USA hanno raggiunto i 3 miliardi di dollari nel primo semestre, dato che si confronta con gli 1,6 miliardi del primo semestre dello scorso anno. Se Putin si accordasse con Riad per estendere il taglio dell’offerta, otterrebbe due risultati sgraditi: indisporrebbe l’amministrazione Trump, cioè il governo di uno dei suoi principali clienti; accelererebbe la corsa alle estrazioni americane, restringendosi il mercato si sbocco negli USA.

Certo, molto dipenderà da cosa faranno le quotazioni nei prossimi mesi. Se ristagnassero sotto i 60 dollari, probabile che anche la Russia acconsentirebbe ad estendere per l’ennesima volta il taglio dell’offerta, ma a differenza di molti membri dell’OPEC, non ha alcuna urgenza a precipitarsi a trovare un’intesa. Anzi, maggiori le difficoltà in casa altrui, più determinante la posizione del Cremlino per i destini delle economie petrolifere in affanno. E in politica ogni aiuto ha un prezzo.

Riserve in dollari e petrolio, perché la Russia le aumenta e l’Arabia Saudita le riduce.



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